giovedì 10 dicembre 2009

Padre padrone: il modello educativo patriarcale nella società arcaica

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un documento sul rapporto padri e figli nella letteratura


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Da una notevole opera letteraria di Gavino Ledda, Padre Padrone è un film crudo e realistico che mette al centro della scena una Sardegna anni luce lontana dai paesaggi turistici da cartolina ma che appare aspra, violenta e colma di civiltà arcaica e rurale; tutto ciò espresso dai Taviani attraverso immagini dal forte impatto emotivo.

Della vita e del lavoro, David Foster Wallance


Ci sono due giovani pesci che nuotano insieme, e gli capita di incontrare un vecchio pesce che viene in senso contrario che gli fa un cenno col capo e gli dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?” ; i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, poi alla fine, uno dei due guarda l’altro e gli dice “Ma che diavolo è l’ACQUA!?”Se in questo momento vi state preoccupando che io voglia presentarmi qui come il vecchio pesce saggio che spiega cos’è l’acqua ai giovani pesci, per favore non fatelo. Non sono il vecchio pesce saggio. Il punto che salta subito agli occhi della storia dei pesci è che le più ovvie, onnipresenti, importanti realtà sono spesso le più difficili da vedere e di cui parlare.Detto così, in questi termini, questo può certo sembrare un banale luogo comune… ma il fatto è che nelle trincee della quotidianità nella nostra vita da adulti, questi luoghi comuni possono essere una questione di vita o di morte. Questo potrebbe sembrarvi un’ iperbole o un’ assurdità.Una grossa percentuale delle cose di cui tendo ad essere automaticamente certo, si rivela poi completamente falsa e deludente. Ecco un esempio della totale falsità di qualcosa di cui tendo ad essere automaticamente certo: tutto nella mia esperienza immediata supporta la mia ferma convinzione che io sia l’assoluto centro dell’universo, la più reale, nitida e importante persona dell’esistenza. Raramente parliamo di questa forma di naturale, basilare egocentrismo, perché è così socialmente repellente… ma è più o meno lo stesso per tutti, in fondo al nostro animo. Sono le nostre impostazioni di default (predefinite, ndt) , prestampate alla nascita nei nostri circuiti. Pensateci: non c’è esperienza che abbiate avuto di cui voi non siete il centro assoluto. Il mondo, per come ne avete esperienza, è proprio lì davanti a voi, o dietro di voi, alla vostra sinistra, destra, sulle vostre TV, sul vostro monitor o quant’altro. I pensieri e i sentimenti delle altre persone vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali, -- avete presente. Ma per favore non vi preoccupate: non mi sto preparando a farvi la predica sulla compassione, o altre buone qualità o sulle cosiddette “virtù”. Questa non è una questione di virtù, è una questione che riguarda la mia scelta di fare in qualche modo il compito di alterare o liberarmi dalle mie impostazioni di default “cablate” nella mia natura che mi fanno essere profondamente e letteralmente egocentrico e vedere ed interpretare la realtà attraverso questa lente del sé.Le persone che riescono a regolare le loro naturali impostazioni di default in questo modo sono spesso descritte come “ben inserite nella società” (“well-adjusted” nel testo originale: letteralmente “ben regolate”, ndt ), che, credo, non sia un termine accidentale.Visto il trionfale scenario accademico di questo luogo, una domanda ovvia è quanto di questo lavoro di regolazione delle impostazioni di default coinvolga la reale conoscenza o l’intelletto. Qui la questione si fa complicata. Probabilmente la cosa più pericolosa dell’educazione universitaria, almeno nel mio caso, è che autorizza la mia tendenza a iper-intellettualizzare le cose, a perdermi in argomenti astratti nella mia testa invece di fare semplicemente attenzione a quello che accade davanti a me. Spostando l’attenzione su quello che accade dentro di me. Sono sicuro ragazzi che l’avrete già scoperto: è estremamente difficile rimanere attenti e reattivi invece che rimanere ipnotizzati dal costante monologo dentro la vostra testa. Venti anni dopo la mia laurea sono arrivato gradualmente a capire che il cliché delle discipline umanistiche dell’ “insegnarvi a pensare” è in effetti un’abbreviazione per un’ idea molto più seria e profonda: “Imparare come pensare” in realtà significa imparare ad esercitare un controllo su come e cosa pensi. Significa essere consci e consapevoli abbastanza da scegliere a cosa porre attenzione e come costruire i significati a partire dall’esperienza; perché se non siete in grado di esercitare questo tipo di scelta nell’età adulta, sarete assolutamente spacciati. Pensate al vecchio adagio “la mente è una serva eccellente ma anche una terribile padrona”. Questo, come molti detti, così incerto e noioso in superficie, in realtà esprime una grandiosa e terribile verità. Non è affatto incidentale che gli adulti che commettono suicidio con armi da fuoco si sparano quasi sempre alla testa. E la verità è che la maggior parte di questi suicidi sono in effetti morti molto prima che premano il grilletto. E io sostengo che il vero valore della vostra educazione umanistica dovrebbe essere su questo (non dico stronzate): come riuscire ad evitare di vivere la vostra confortevole, prospera e rispettabile vita adulta da morti, inconsci e schiavi della vostra testa e delle vostre impostazioni di default che vi riducono unicamente, completamente e imperiosamente alla solitudine, giorno dopo giorno.Tutto ciò potrebbe suonarvi esagerato, un nonsenso astratto. Allora siamo concreti. Il fatto semplice è che voi prossimi laureandi non avete ancora un’ idea di cosa “giorno dopo giorno” significhi veramente. Esiste una larga parte della vita adulta americana di cui nessuno parla nei discorsi introduttivi. Una parte che riguarda la noia, la routine, e la banale frustrazione. I genitori e la gente di una certa età qui sanno fin troppo bene di cosa sto parlando. Per esempio, immaginiamo di essere in un giorno come tanti: ti alzi presto la mattina, vai al tuo stimolante lavoro, e sgobbi duramente per nove o dieci ore, e alla fine della giornata sei stanco, stressato, e tutto quello che vuoi è andare a casa, cenare, forse rilassarti un paio di ore e poi buttarti in branda presto perché il giorno dopo devi risvegliarti e ricominciare tutto da capo. Ma ti ricordi che non hai cibo a casa – non hai avuto tempo di fare spesa questa settimana, a causa del tuo stimolante incarico – e così ora, dopo il lavoro, devi infilarti in macchina e arrivare al supermercato. Siamo alla fine della giornata, il traffico è micidiale, così arrivare al supermercato ti richiede molto più del dovuto, e quando alla fine arrivi, è gremito, perché chiaramente è l’ora della giornata in cui tutte le altre persone che lavorano almeno otto ore al giorno provano a strizzarsi nel supermercato, e il posto è orribilmente illuminato al neon e infuso di musichette di sottofondo alienanti o pop commerciali, ed è più o meno l’ultimo posto in cui vorresti essere, ma non puoi uscire subito appena entrato: devi vagabondare per le immense corsie, super-illuminate e affollate per trovare le cose che vuoi, e devi manovrare il tuo carrello stracarico tra tutte le altre persone con i carrelli, stanche e affrettate, e poi ci sono i vecchietti glacialmente lenti, le persone assurdamente imbranate, i bambini con la sindrome ADHD; tutti che bloccano la tua corsia e devi stringere i denti e cercare di essere il più gentile possibile mentre gli chiedi di lasciarti passare, e alla fine, in conclusione, hai tutta la spesa per la cena, solo che ora la fila alla cassa è incredibilmente lunga, cosa stupida ma che ti fa imbestialire, per non puoi sfogare la tua furia sulla frenetica cassiera. Comunque alla fine arrivi alla cassa, paghi il tuo cibo, aspetti che una macchina autentichi la tua carta di credito e poi ti senti dire “arrivederci” in una voce che è indiscutibilmente la voce della morte, quindi devi portare nel carrello le tue buste di plastica sottile piene di vivande attraverso un parcheggio affollato, sporco e accidentato, provare a caricarle in macchina in maniera tale che non cada tutto fuori rotolando per l’abitacolo mentre ritorni e poi devi guidartela tutta fino a casa, in mezzo al lento traffico dell’ora di punta, pesante di SUV, eccetera, eccetera.Il punto è che nella banale e frustrante merda come questa è esattamente dove viene chiamato in causa l’esercizio della funzione dello scegliere. Perché l’ingorgo, le corsie affollate e le file alla cassa mi danno il tempo di pensare, e se non faccio una decisione consapevole su cosa pensare e a cosa fare attenzione, sarò incazzato e infelice ogni volta che andrò fare la spesa, perché la mia impostazione di default è la certezza che situazioni così riguardino veramente me, la mia fame, la mia stanchezza e il mio desiderio solo di arrivare a casa, e sembra come se, precisamente tutti mi si mettano in mezzo alla strada, e chi sono queste persone in mezzo alla mia strada? E guarda quanto sono repellenti la maggior parte di queste, e come sembrano stupide, non umane, manzi dall’occhio spento in fila alla cassa, oppure quanto sono fastidiose e volgari quelle che parlano ad alta voce al cellulare mentre fanno la coda, e guarda quanto è profondamente ingiusto tutto ciò: ho lavorato veramente duro tutto il giorno, ho fame, sono stanco e non riesco neanche ad andare a casa, mangiare e riposare a causa di queste dannate persone.Oppure, certo, potrei essere in una forma più socialmente cosciente delle mie impostazioni di default, e passare il tempo nell’ingorgo serale arrabbiato e disgustato di tutti gli enormi, stupidi, ingombranti SUV, Hummer e furgoni pickup V-12 che bruciano serbatoi da 150 litri di gasolio, e soffermarmi sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sui parafanghi sembrano sempre essere sui veicoli più grossi e distintamente prepotenti, guidati dai piloti più brutti, sconsiderati ed aggressivi, che generalmente stanno parlando al cellulare mentre tagliano la strada alla gente per guadagnare dieci stupidi metri nella coda, e posso solo immaginare come i figli dei nostri figli ci disprezzeranno, per aver sprecato tutte le risorse del pianeta e probabilmente incasinato irrimediabilmente il clima, e potrei anche pensare a quanto siamo stupidi, viziati e disgustosi, a come facciamo schifo tutti quanti, e così via , ancora ed ancora… Guardate, se scelgo di pensare così… bene, nessuno me lo impedisce, molti di noi lo fanno – a parte il fatto che pensare in questo modo tende a essere facile e automatico- non deve essere una scelta. Pensare in questo modo fa parte delle mie impostazioni di default: la modalità automatica, inconscia con cui faccio esperienza della noiosa, frustrante e affollata parte della vita adulta, quando agisco nella automatica e inconscia convinzione che io sia il centro dell’universo e che i miei sentimenti e immediate necessità sono quelle che dovrebbero determinare le priorità del mondo. Il fatto è che, ovviamente ci sono modi differenti di pensare in queste situazioni. Nel traffico, tutte queste macchine ferme immobili sul mio percorso: non è impossibile che alcune delle persone nei SUV siano state vittime di terribili incidenti d’auto in passato e per loro guidare è così traumatico che il loro analista non ha potuto fare a meno di consigliargli un enorme e pesante SUV per sentirsi più sicuri alla guida; oppure che l’Hummer che mi ha appena tagliato la strada, forse è guidato da un padre il cui figlio piccolo, sul sedile accanto è malato o ferito e sta correndo all’ospedale e ha una fretta molto più grande e giustificata della mia – effettivamente sono io che sto intralciando la sua strada. Oppure posso scegliere di sforzarmi a considerare la possibilità che tutti quanti nella coda al supermercato sono annoiati e frustrati quanto lo sono io, e alcune di queste persone probabilmente hanno tutto sommato una vita più dura, tediosa e penosa della mia.Di nuovo: per favore non pensate che vi stia dando consigli morali o che vi dica che dovreste pensare in questo modo, o che qualcuno si aspetta che lo facciate, perché è difficile, richiede volontà e sforzo mentale e, se siete come me, alcuni giorni non sarete in grado di farlo o semplicemente non lo vorrete. Ma nella maggior parte dei giorni, se siete lucidi e consapevoli a sufficienza da darvi la possibilità di scegliere, potete guardare in maniera differente questa grassa signora dall’occhio spento e il trucco pesante che ha appena sgridato il figlio nella fila alla cassa – forse non è sempre così, forse è stata sveglia per tre notti di seguito tenendo la mano del marito che sta morendo di cancro alle ossa, o forse è la stessa impiegata della motorizzazione, sottopagata con contratto a termine, che proprio ieri ha aiutato tua moglie con quell’incubo burocratico di documenti, bolli e autorizzazioni. Certo, nessuna di queste cose è probabile, ma neanche impossibile – dipende tutto da quello che decidete di tenere in considerazione. Se siete automaticamente certi di sapere cosa è la realtà e chi e cosa è importante – se operate secondo le vostre impostazioni di default – allora voi, come me, non considererete possibilità inutili e fastidiose. Ma se avrete veramente imparato a pensare, a fare attenzione, allora saprete che avete altre possibilità. Sarete in grado di vivere un’ esperienza lenta, affollata, rumorosa, da girone dantesco del consumo, non solo come significativa, ma sacra, splendente della stessa forza che illumina le stelle – compassione, amore, l’unità di tutte le cose che si nasconde sotto la superficie dell’apparenza. Non che tutta questa roba mistica sia necessaria: la sola cosa Vera, con V maiuscola è che voi decidete come provare a vederla. Riuscite a decidere coscientemente cosa ha significato e cosa no. Riuscite a decidere cosa credere… Perché ecco un’altra cosa Vera: nelle trincee della vita quotidiana degli adulti non esiste una cosa come l’ateismo. Non esiste una cosa come il non adorare nulla. Tutti adorano. L’unica scelta che abbiamo è cosa adorare. E una ragione prominente per scegliere qualche forma di Dio o cose di tipo spirituale – sia esso Gesù o Allah, Jahvé o le dee-madri Wicca, le Quattro Nobili Verità o qualche insieme di infrangibili principi etici -- è che più o meno ogni altra cosa che adorerete vi divorerà vivi. Se adorate il denaro e gli oggetti materiali – se da questo attingete il senso per il vostro vivere – allora non ne avrete mai abbastanza…non avrete mai la sensazione di averne avuto abbastanza. E’ la verità. Adorate il vostro corpo, la bellezza e l’attrattiva sessuale e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi sentire, morirete un milione di morti prima che vi abbandonino definitivamente. Ad un certo livello, tutti conosciamo già queste cose – sono state codificate in miti, proverbi, cliché, epigrammi, parabole: l’ossatura di ogni grande passato. Il trucco è tenere la verità sempre davanti agli occhi, in una consapevolezza quotidiana. Adorate il potere – vi sentirete deboli e spaventati, e avrete bisogno di altro potere sugli altri per tenere a bada la paura. Adorate il vostro intelletto, essere considerati intelligenti -- e finirete per sentirvi stupidi, un imbroglio, sempre in procinto di essere scoperti. E così via.Attenzione, la cosa insidiosa di queste forme di adorazione non è che siano perverse o peccaminose; è che sono inconsce. Sono impostazioni di default. Sono il tipo di adorazione in cui scivoli gradualmente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivo su quello di cui ti accorgi, e su come misuri il valore delle cose, senza mai essere pienamente cosciente che è quello che stai facendo. E il mondo non ti dissuaderà dall’operare secondo le tue impostazioni di default, perché il mondo degli uomini, dei soldi e del potere viaggia a meraviglia con il carburante della paura e del disprezzo, della frustrazione, della brama e del narcisismo. La nostra cultura attuale ha imbrigliato queste forze in modo che producano straordinarie ricchezze, confort e libertà personale. La libertà di essere i padroni dei nostri minuscoli regni delle dimensioni del cranio, da soli al centro dell’universo. Questo tipo di libertà si vende molto bene. Ma certo ci sono tipi diversi di libertà, e del tipo più prezioso non sentirete molto parlare nel mondo lì fuori, fatto di conquiste, realizzazioni e esibizioni. Il tipo di libertà veramente importante riguarda l’attenzione, la consapevolezza, la disciplina e l’impegno e l’essere in grado di prendersi cura veramente delle altre persone e sacrificarsi per loro, più e più volte ogni giorno, in una miriade di piccoli gesti né seducenti né clamorosi. Questa è la vera libertà. L’alternativa e l’incoscienza, le impostazioni predefinite, la corsa al successo (“la corsa dei topi” tradotto letteralmente, ndt) – la costante e lancinante sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.Lo so che cose come queste forse non suonano come divertenti, elettrizzanti o fonte di grandi ispirazioni. Per quello che ne so io sono semplicemente la verità, senza troppe stronzate retoriche. Ovviamente potete pensarne quello che volete. Ma per favore non liquidatelo come una predica ammonitrice della dr.ssa Laura (Laura Catherine Schlessinger, speaker radiofonica ndt). Nulla di tutto questo riguarda la moralità, la religione, i dogmi o le grandi domande sulla vita dopo la morte. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda arrivare a 30 o forse 50 anni senza avere il desiderio di spararvi. Riguarda la semplice consapevolezza, consapevolezza di ciò che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista intorno a noi, che dobbiamo continuare a ricordarci continuamente: “questa è l’acqua, questa è l’acqua”.E’ inimmaginabile quanto sia difficile farlo, e rimanere coscienti e vivi, giorno dopo giorno.

mercoledì 25 novembre 2009

La cortigiana onesta: da Terenzio a Verdi

TRAVIATA

Trama:
Atto I. Parigi, alla metà dell'Ottocento. C'è una gran festa nella casa di Violetta Valéry, una mondana famosa: è un modo per soffocare l'angoscia che la tormenta, perché ella sa che la sua salute è gravemente minata. Un nobile, Gastone, presenta alla padrona di casa il suo amico Alfredo, che l'ammira sinceramente. L'attenzione che Violetta dimostra per la nuova conoscenza non sfugge a Duphol, il suo amante abituale. Mentre Violetta e Alfredo danzano, il giovane le dichiara tutto il suo amore e Viloetta gli regala un fiore, una camelia: rivedrà Alfredo solo quando sarà appassita. Alla fine della festa, Violetta deve ammettere di essersi innamorata davvero, per la prima volta.
Atto II. Alfredo e Violetta Valéry hanno abbandonato, insieme, la metropoli e vivono felici in una villa. Quando l'uomo viene a sapere, attraverso una confessione della cameriera Annina, che Violetta sta vendendo i suoi gioielli perché è rimasta senza denaro, si precipita a Parigi per procurarsene. L'amica di Violetta, Flora, l'invita a una festa; ma la ragazza non ha voglia di andarvi e rimane in casa, dove riceve la visita inattesa del padre di Alfredo, Giorgio Germont. Costui l'accusa di condurre il figlio alla miseria; ma Violetta contesta le sue affermazioni, gli fa vedere che, al contrario è stata lei a vendere i suoi preziosi e afferma di non avere mai chiesto nulla ad Alfredo. Giorgio sembra convinto, ma non rinuncia al suo proposito di separare Alfredo e Violetta. Infatti quel legame dà scandalo e finché dura non potrà far sposare un'altra figlia. La donna deve scegliere, e fa quello che crede essere il bene del suo innamorato.
Abbandona Alfredo, che è colto da gelosia. Violetta riappare a una festa nuovamente accompagnata da Duphol, che vorrebbe sfidare a duello il giovane Germont, Violetta lo implora di lasciare la casa; se ne andrà, dice lui, solo se lei lo seguirà.
La ragazza allora gli rivela di avere giurato di non incontrarlo e lascia credere di aver fatto questo giuramento a Duphol, per non raccontare ad Alfredo il colloquio che ebbe con suo padre, a proposito di sua sorella. Alfredo si indigna, la tratta da prostituta. Arriva Giorgio, che lo rimprovera per questo comportamento; ma non gli svela la verità.
Atto III. Il male che da tempo mina la salute di Violetta si è molto aggravato. La donna non può più alzarsi dal suo letto. Le giunge una lettera di Germont: finalmente, ha deciso di spiegare tutto a suo figlio.
Alfredo si è commosso e sta arrivando. Violetta è incredibilmente contenta, ma per lei non c'è più nulla da fare; teme, anzi, di non sopravvivere fino al suo arrivo. Ma, infine, Alfredo è lì, al suo capezzale; e vi è anche suo padre, profondamente pentito.
La tisi uccide Violetta davanti a loro, in un clima di acuto dolore, addolcito però dalla delicatezza e dalla purezza dei sentimenti.


La Medea di Euripide e Seneca nella cultura contemporanea

Nella cultura contemporanea la tragedia di Euripide è stata oggetto di interessanti riletture in luoghi ‘altri’, diversi e lontani dalla Grecia, e l’eroina tragica – in linea con i dettami dei recenti Postcolonial Studies - è divenuta spesso il simbolo della lotta contro la colonizzazione delle potenze occidentali: si può ricordare, ad esempio, la Medea nera del recente romanzo di Phillippe Everett, For Her Dark Skin, o il dramma The Wingless Victory (1936) di Maxwell Anderson, una rilettura della tragedia antica in chiave antirazzista. Nel cinema contemporaneo risultano sicuramente interessanti tre trasposizioni e ‘riambientazioni’ della vicenda euripidea: quella realizzata da Pier Paolo Pasolini nella sua Medea (1970), quella di Lars von Trier, del 1988, e quella di Arturo Ripstein con Asì es la vida (2000). Pasolini traspone cinematograficamente la Medea di Euripide con un’impronta tutta personale. La tragedia euripidea appare come una struttura narrativa utilizzata per mostrare in realtà altro: innanzitutto un conflitto fra due culture, quella “barbara” di Medea e quella ‘moderna’ di Giasone; poi, le immagini di un sacrificio umano e di antichi rituali rappresentate con occhio quasi documentaristico, filtrate dalla lettura di alcuni trattati di antropologia e di storia delle religioni, come quelli di Levy-Brul, Frazer e Eliade. Ed è così che la sua Medea, in cui il ruolo della protagonista è affidato a una silenziosa e ‘barbara’ Maria Callas, appare inoltre ‘riambientata’: l’autore opera cioè anche una trasposizione di luoghi; dalla Grecia della tragedia antica ci ritroviamo in Siria e in Turchia, mentre altri momenti della vicenda tragica inventati da Pasolini – come la narrazione del Centauro a Giasone bambino, all’inizio, o l’incontro di questo con i due Centauri – vengono ‘riambientati’ rispettivamente nella laguna di Grado e nella Piazza dei Miracoli di Pisa. La Medea di Pasolini assume perciò un’impronta dichiaratamente politica: rappresenta infatti una cultura ‘barbara’ e ‘primitiva’ (e, si potrebbe dire, ‘sottoproletaria’) che si pone in forte contrasto con la cultura moderna e neocapitalistica rappresentata da Giasone. Così dichiara lo stesso Pasolini in un’intervista con Jean Duflot: «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo» (Il sogno del Centauro, ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 1504). Medea possiede uno sguardo ‘da terzo mondo’, uno sguardo sacro sulla realtà, completamente estraneo alla macina del potere neocapitalistico avanzante; e tale visione della realtà, si potrebbe dire, viene accentuata dall’ambientazione che Pasolini sceglie: terre lontane dalla colonizzazione neocapitalistica (nel 1970 certo più di oggi) come la Siria e la Turchia. Del resto, un’altra ambientazione lontana dai dettami culturali del canone occidentale era stata scelta dal regista per la sua rilettura dell’Orestea di Eschilo negli Appunti per un’Orestiade africana (1969), in cui una trilogia tragica antica – senza tralasciare gli insegnamenti dei postcolonial studies – veniva ricostruita nel movimentato milieu dell’Africa della fine degli anni sessanta. In Petrolio, il romanzo incompiuto cui Pasolini stava lavorando al momento della morte e pubblicato soltanto nel 1992, incontriamo invece una riscrittura in chiave anticapitalistica e anticolonialista di un’opera antica come Le Argonautiche di Apollonio Rodio, ‘riambientata’ stavolta nel Medio Oriente martoriato dalle guerre per il petrolio. Anche nelle “Argonautiche” di Petrolio la figura di Medea viene connotata come ‘barbara’ e come «selvaggia», un personaggio ‘diseredato’ che guarda il mondo dalla sua ottica ‘altra’ non priva di risvolti politici. Comunque, il cinema di Pasolini ci offre diverse opere canoniche ‘riambientate’: basti pensare al Vangelo (una interessante rilettura africana del Vangelo è offerta anche da Valerio Zurlini in Seduto alla sua destra, 1968, dove il protagonista è ispirato alla figura di Patrice Lumumba) la cui Terra Santa viene ambientata in paesini dell’Italia meridionale e i cui personaggi vengono interpretati da attori non professionisti, da sottoproletari non molto diversi dai borgatari romani di Accattone (1961) e di Mamma Roma (1962); oppure a Edipo re (1967), dove i luoghi tragici antichi vengono ricostruiti sotto il sole bruciante del Marocco e dove i personaggi sono sempre sottoproletari che si esprimono in dialetti dell’Italia meridionale. Completamente opposta è invece la ‘riambientazione’ scelta da Lars von Trier per la sua Medea. Non più il sud del mondo, ma il nord. Il regista di Breaking the weaves (Le onde del destino) traspone infatti la tragedia euripidea in una Danimarca cupa e nebbiosa, dove gli stessi costumi dei personaggi ammiccano a un oscuro e imprecisato medioevo nordico, in cui l’elemento dell’acqua, simbolo dell’inconscio, gioca un ruolo fondamentale. Il regista danese riprende una sceneggiatura nientemeno che di Carl Theodor Dreyer, in un trattamento in cui il rispetto per l’originale si unisce a un’interpretazione tutta personale del grande maestro. Infatti, ad esempio, Dreyer intendeva ambientare il film in Grecia, mentre von Trier sceglie, come già accennato, un nord nebbioso e dominato dall’acqua, in linea con una consolidata poetica autoriale già espressa nelle immagini di un’Europa allagata in L’elemento del crimine (1984), che deve molto anche alla lezione di un altro maestro dichiarato del regista danese, Andrej Tarkovskij. Se la Medea di Pasolini si poteva definire come una ‘signora del Sole’ (una maga figlia del Sole, messa sovente in relazione con esso tramite il montaggio alternato), quella di von Trier si presenta come una ‘signora dell’acqua’. Nelle immagini iniziali vediamo infatti la protagonista – ripresa da inquadrature aeree e fluttuanti in un vertiginoso vortice – sdraiata su una spiaggia e sormontata dalle onde del mare mentre, in preda a palpiti d’angoscia, stringe la sabbia con le mani (immagine che forse cela un gusto iconografico per l’Ofelia annegata, che tornerà comunque in un’inquadratura di Nicole Kidman in Dogville, 2004). Successivamente la macchina ‘si tuffa’ nel mare freddo e grigio per inquadrare da lontano la nave del re Egeo che sta sopraggiungendo. Subito dopo, quasi trascinata da una forza onirica e perturbante, ‘annega’ risucchiata letteralmente dall’acqua e vediamo apparire il titolo del film col nome del regista, in una cupa stilizzazione che rappresenta i figli di Medea impiccati a un albero. Infatti, se Pasolini, in linea col teatro tragico greco, non mostrava in scena l’uccisione dei figli facendo semplicemente vedere agli spettatori la lama del coltello (che rappresentava metaforicamente l’assassinio), von Trier calca invece le sequenze dell’impiccagione dei bambini con crudezza estrema. La scena dell’impiccagione è giocata in contrasto con le inquadrature di Giasone che sta cavalcando attraverso spazi aperti per raggiungere Medea: da una parte, perciò, le immagini claustrofobiche e ravvicinate dell’uccisione, in cui l’orrore è accentuato dalla consapevolezza del figlio più grande, che addirittura aiuta la madre a uccidere il fratello e se stesso mettendosi da solo la corda intorno al collo; dall’altra, invece, spazi aperti, praterie, immagini che comunque sono ben lungi dall’essere catartiche e liberatorie. La cavalcata di Giasone terminerà infatti nella macabra scoperta del cadavere dei figli e in un suicidio: una volta uccisosi con la propria spada, il personaggio disteso sull’erba, verrà presentato, tramite una sovrapposizione di immagini, sommerso dalle onde del mare, le stesse che all’inizio avvolgevano Medea. L’ottica dell’eroina tragica rappresentata da von Trier non proviene più perciò dal sud dei diseredati, dei sottoproletari, e non possiede nemmeno più un filtro politico. Semmai, si può parlare di una vera e propria ottica tragica, dettata dall’oscurità e dall’angoscia, in linea con la poetica del regista (in questo senso Medea diviene un’eroina tragica alla von Trier, una donna votata al sacrificio e all’espiazione come la Bess di Le onde del destino o la Selma di Dancer in the dark, 2000). Infine, il regista messicano Arturo Ripstein, già aiutante alla regia di Luis Buñuel, in Asì es la vida ‘riambienta’ la Medea di Seneca (non più quella di Euripide) in un quartiere popolare di Città del Messico. Una trasposizione ‘anticanonica’ quindi, ben più marcata di quella di Pasolini. Medea è allora Julia, una ragazza in odore di magia che pratica l’aborto clandestino, giunta nella metropoli al seguito del ‘casanova’ senza scrupoli Nicolas, da lui poi abbandonata per la figlia del “Marrana”, boss del quartiere, corrispondenti, rispettivamente, a Giasone, Glauce e Creonte. Interessante appare anche la rilettura del coro tragico attuata da Ripstein: si trasforma infatti in uno scalcinato e allegro gruppo musicale che improvvisa sulla chitarra storie messe in musica e appare sullo schermo ogni volta che Julia o l’anziana padrona di casa (corrispondente alla nutrice di Medea) accende la televisione. Viene inoltre messo in scena un curioso gioco metacinematografico secondo il quale il regista e la sua troupe entrano dentro il meccanismo della finzione: infatti, spesso lunghe carrellate all’interno degli appartamenti popolari terminano con i personaggi che cacciano gli ‘intrusi’ (la macchina, il regista e la troupe) fuori di casa. Un gioco che culminerà in un’immagine alla Velazquez dove, in una camera, vediamo riflessi in uno specchio il regista, i suoi collaboratori e la macchina da presa. In linea con la tragedia di Seneca che, a differenza di quella di Euripide mostra sulla scena le uccisioni e i fatti di sangue, Ripstein rappresenta molto crudamente l’assassinio dei figli di Julia e Nicolas da parte della madre. Viene mostrato il coltello, come in Pasolini, ma anche l’atto dell’omicidio, e i cadaveri ancora sanguinanti dei bambini vengono esposti di fronte a un agghiacciato Nicolas appena rientrato a casa. Ancora un odio estremo, quello di Medea, che non risparmia neppure ciò che ha di più caro. Non più, però, l’odio di una ‘diseredata’ nei confronti dei ricchi e dei colonialisti del neocapitalismo, come in Pasolini. Non più perché, in Asì es la vida, sono un po’ tutti dei diseredati, da Nicolas al “Marrana”, dalla vecchia ‘nutrice’ alle ragazze che si affidano a Julia per abortire clandestinamente. Il film mette in scena un mondo duro, fatto di piccole gioie e piccoli dolori, una lotta fra poveri in cui il più forte ha sempre la meglio sul più debole. Un richiamo all’antico per mostrare agli spettatori una società contemporanea nascosta, lontana dai nostri sguardi abituali, una realtà sottoproletaria metropolitana, quella di Città del Messico e di mille altre città. Una società in cui protagonista non è più Medea, ma la clandestina Julia che, una volta ripudiata e allontanata con la violenza, esprime a sua volta la sua violenza e il suo odio nei confronti di altri diseredati come lei, prima di partire per sempre verso nuovi sud del mondo a bordo di un taxi giallo.

per un approfondimento su Pasolini e Medea segui questo link:

http://www.griseldaonline.it/formazione/medea_ricci.htm



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martedì 3 novembre 2009

la collezione di Des Esseintes, simbolismo ed arte





























"La collezione di Des Esseintes"

Des Esseintes, il personaggio immaginario inventato da Huysmans, è forse il primo collezionista a potersi vantare, all’inizio degli anni ottanta, di avere una raccolta di gusto prettamente simbolista. I quadri, le stampe, i disegni citati di Moreau, Redon, Bresdin, esistono veramente, ed è interessante rileggerli attraverso le parole di Huysmans. Così lo scrittore presenta L’apparizione, un dipinto di Moreau del 1876, che mostra appunto la testa mozza del Battista che appare a Salomè: "un mosaico circondava il volto da cui si sprigionava un’aureola, irradiandosi in fasci di luce sotto i portici, illuminando la paurosa ascesa della testa, accendendo il globo vetrino delle pupille fisse, quasi aggrappate alla danzatrice. Con un gesto di spavento, Salomè respinge la terribile visione che la inchioda immobile sulle punte; i suoi occhi si dilatano, la sua mano stringe la gola con un gesto convulso. È quasi nuda; nell’ardore della danza i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti; ella è vestita solo di oreficerie, di lucidi minerali"(...)
Il gusto decadente di Des Esseintes è ben rappresentato anche da una litografia La Commedia della Morte di Bresdin, "dove, in un inverosimile paesaggio irto di alberi, di cespugli, di boschetti che assumevano forme di demoni e di fantasmi, coperto di uccelli dalla testa di topo, dalle code di legumi, su di un terreno cosparso di vertebre, di costole, di cranii, si ergevano dei calici nodosi e spaccati, sormontati da scheletri che agitavano un mazzo di fiori con le braccia in aria intonando un canto di vittoria, mentre un Cristo fuggiva in un cielo pomellato, un eremita rifletteva con la testa fra le mani nel fondo di una grotta, un miserabile moriva estenuato dalle privazioni, consunto dalla fame, coricato sul dorso, i piedi davanti a una palude".
Altri quadri ornavano le stanze di Des Esseintes: "Avevano la firma di Odilon Redon. Racchiudevano nelle loro sottili cornici di pero naturale, orlate d’oro, apparizioni inconcepibili: una testa di stile merovingio posta su di una coppa, un uomo barbuto, che aveva del bonzo e dell’oratore di riunione pubblica, che toccava col dito una colossale palla da cannone; uno spaventoso ragno che aveva nel mezzo del corpo un volto umano"(...).
(Da: Pierluigi De Vecchi - Elda Cerchiari, "Arte nel tempo", Bompiani, Milano 1996, vol.3 -Tomo II, pg.402) ARTE simbolismo




mercoledì 16 settembre 2009

L'atechnìa tēs physeōs

Partendo dal preambolo che sta alla base della dottrina epicurea e cioè che tutto ciò che chiamiamo reale è frutto di ciò che può essere obbiettivamente percepito dai sensi (anche se attraverso l'ausilio non indifferente della coscienza), Lucrezio spiega le ali del suo canto che, in certi momenti, ci appare davvero sublime.
Il poeta-filosofo mira dritto al cuore della filosofia del suo
maestro: è un ortodosso, non (ri-)conosce la mediazione di altri autori. Egli scrive unicamente di ciò che sembra interpretare al meglio la dottrina del "fondatore" e lo fa senza mezze misure, ma con una leggerezza ed una suasività propria di chi vive un rapporto felice con la Poesia.
L'atechnìa tēs physeōs di
Epicuro, cioè quel rapporto irrazionale che la natura pare avere soprattutto rispetto all'uomo, viene accentuata in Lucrezio fino ad assumere i toni più cupi e pessimisti. Certo, non irrilevante in questa visuale più estrema, è il ruolo della condizione sociale e politica della Roma in cui il filosofo viveva, ma senz'altro questo difetto naturale è anche frutto di una più profonda riflessione metafisica, che la declamata indifferenza o il sostanziale disprezzo per il reale non mitigano del tutto:

...Per quel che mi riguarda, preferisco ignorare quali sono i principi delle cose;
oserei tuttavia, e sul semplice studio dei fenomeni celesti,
e su ben altri fatti ancora, sostenere e dimostrare
che il mondo non è stato creato per noi da una volontà divina:
tanto si presenta contaminato da difetti...

(
De rerum natura, II, 177-181)

E' comunque in questa sostanziale "mancanza di perfezione" che Lucrezio ravvisa la causa della dolorosa condizione umana:

...Così, il genere umano lavora senza profitto, in pura perdita,
e si consuma in vane preoccupazioni:
non conosce - è evidente - il limite del possesso
e sin dove può estendersi il vero piacere.
Quest'ignoranza a poco a poco ci ha trascinati nella tempesta
e ha scatenato le burrasche e le rovine della guerra...

(id., V, 1430-1435)

Al poeta non resta che rifugiarsi nella memoria di un più fecondo passato che lo aiuti a dimenticare la difficoltà universale sua e dei suoi simili:

...Già, scuotendo il capo, il contadino carico d'anni sospira senza tregua,
al pensiero che tutta la sua grande fatica è rimasta sterile,
e, quando paragona il presente al passato,
non manca di vantare la fortuna di suo padre.
Anche chi ha piantato una vigna, oggi vecchia e rinsecchita,
incrimina, tutto triste, l'azione del tempo,
affligge il cielo con i suoi lamenti e brontola incessantemente
che gli uomini d'un tempo, pieni di devozione,
ebbero un'esistenza molto facile anche in territorio ristretto,
malgrado la parte ben minore di terra assegnata a ciascuno:
e non si avvede che tutto deperisce a poco a poco.
E si avvia verso la bara, stremato dalla lunghezza del cammino della vita.

(id., II, 1164-1174)

Sono i versi perfetti di un uomo consapevole, al quale altro non è concesso se non il dono della testimonianza.
"Redimere" l'uomo da una culpa non sua non è possibile. Possibile è solo descriverne il doloroso tragitto fra la nascita e la morte. Anche se verso quest'ultima egli ha parole decisive:

...occorre scacciare e rovesciare quel timore dell'Acheronte che,
penetrando sino al fondo dell'uomo, getta la preoccupazione nella sua vita,
la colora interamente del nero della morte e non lascia che alcun piacere
possa sussitere puro e senza ombre...


(id., III, 37-40)

lunedì 14 settembre 2009

per la classe III : frammenti di un discorso amoroso
























una semplice idea:

seguire lo studio dell'amore cortese e della poesia del medioevo fino al rinascimento, attraverso le riflessioni di un semiologo alle prese con l'osservazione di se stesso innamorato;

il suo e il nostro vocabolario "amoroso" non sono lontani dalle parole dei poeti e della letteratura europea dalle origini ai nostri giorni.

http://www.tecalibri.info/B/BARTHES_frammenti.htm#p000

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venerdì 11 settembre 2009

per la classe V: alcune letture critiche su Leopardi



scorrendo le pagine con il mouse verso l'alto, puoi consultare quasi interamente lo studio di Antonio Prete
(si consiglia la versione rimpicciolita che puoi ottenere clikcando in alto a destra sulla lente con il segno - )

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Un interessante sito sugli studi Leopardiani che raccoglie interventi recenti e articoli :

http://www.leopardi.it/home.php

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