Nella cultura contemporanea la tragedia di Euripide è stata oggetto di interessanti riletture in luoghi ‘altri’, diversi e lontani dalla Grecia, e l’eroina tragica – in linea con i dettami dei recenti Postcolonial Studies - è divenuta spesso il simbolo della lotta contro la colonizzazione delle potenze occidentali: si può ricordare, ad esempio, la Medea nera del recente romanzo di Phillippe Everett, For Her Dark Skin, o il dramma The Wingless Victory (1936) di Maxwell Anderson, una rilettura della tragedia antica in chiave antirazzista. Nel cinema contemporaneo risultano sicuramente interessanti tre trasposizioni e ‘riambientazioni’ della vicenda euripidea: quella realizzata da Pier Paolo Pasolini nella sua Medea (1970), quella di Lars von Trier, del 1988, e quella di Arturo Ripstein con Asì es la vida (2000). Pasolini traspone cinematograficamente la Medea di Euripide con un’impronta tutta personale. La tragedia euripidea appare come una struttura narrativa utilizzata per mostrare in realtà altro: innanzitutto un conflitto fra due culture, quella “barbara” di Medea e quella ‘moderna’ di Giasone; poi, le immagini di un sacrificio umano e di antichi rituali rappresentate con occhio quasi documentaristico, filtrate dalla lettura di alcuni trattati di antropologia e di storia delle religioni, come quelli di Levy-Brul, Frazer e Eliade. Ed è così che la sua Medea, in cui il ruolo della protagonista è affidato a una silenziosa e ‘barbara’ Maria Callas, appare inoltre ‘riambientata’: l’autore opera cioè anche una trasposizione di luoghi; dalla Grecia della tragedia antica ci ritroviamo in Siria e in Turchia, mentre altri momenti della vicenda tragica inventati da Pasolini – come la narrazione del Centauro a Giasone bambino, all’inizio, o l’incontro di questo con i due Centauri – vengono ‘riambientati’ rispettivamente nella laguna di Grado e nella Piazza dei Miracoli di Pisa. La Medea di Pasolini assume perciò un’impronta dichiaratamente politica: rappresenta infatti una cultura ‘barbara’ e ‘primitiva’ (e, si potrebbe dire, ‘sottoproletaria’) che si pone in forte contrasto con la cultura moderna e neocapitalistica rappresentata da Giasone. Così dichiara lo stesso Pasolini in un’intervista con Jean Duflot: «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo» (Il sogno del Centauro, ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 1504). Medea possiede uno sguardo ‘da terzo mondo’, uno sguardo sacro sulla realtà, completamente estraneo alla macina del potere neocapitalistico avanzante; e tale visione della realtà, si potrebbe dire, viene accentuata dall’ambientazione che Pasolini sceglie: terre lontane dalla colonizzazione neocapitalistica (nel 1970 certo più di oggi) come la Siria e la Turchia. Del resto, un’altra ambientazione lontana dai dettami culturali del canone occidentale era stata scelta dal regista per la sua rilettura dell’Orestea di Eschilo negli Appunti per un’Orestiade africana (1969), in cui una trilogia tragica antica – senza tralasciare gli insegnamenti dei postcolonial studies – veniva ricostruita nel movimentato milieu dell’Africa della fine degli anni sessanta. In Petrolio, il romanzo incompiuto cui Pasolini stava lavorando al momento della morte e pubblicato soltanto nel 1992, incontriamo invece una riscrittura in chiave anticapitalistica e anticolonialista di un’opera antica come Le Argonautiche di Apollonio Rodio, ‘riambientata’ stavolta nel Medio Oriente martoriato dalle guerre per il petrolio. Anche nelle “Argonautiche” di Petrolio la figura di Medea viene connotata come ‘barbara’ e come «selvaggia», un personaggio ‘diseredato’ che guarda il mondo dalla sua ottica ‘altra’ non priva di risvolti politici. Comunque, il cinema di Pasolini ci offre diverse opere canoniche ‘riambientate’: basti pensare al Vangelo (una interessante rilettura africana del Vangelo è offerta anche da Valerio Zurlini in Seduto alla sua destra, 1968, dove il protagonista è ispirato alla figura di Patrice Lumumba) la cui Terra Santa viene ambientata in paesini dell’Italia meridionale e i cui personaggi vengono interpretati da attori non professionisti, da sottoproletari non molto diversi dai borgatari romani di Accattone (1961) e di Mamma Roma (1962); oppure a Edipo re (1967), dove i luoghi tragici antichi vengono ricostruiti sotto il sole bruciante del Marocco e dove i personaggi sono sempre sottoproletari che si esprimono in dialetti dell’Italia meridionale. Completamente opposta è invece la ‘riambientazione’ scelta da Lars von Trier per la sua Medea. Non più il sud del mondo, ma il nord. Il regista di Breaking the weaves (Le onde del destino) traspone infatti la tragedia euripidea in una Danimarca cupa e nebbiosa, dove gli stessi costumi dei personaggi ammiccano a un oscuro e imprecisato medioevo nordico, in cui l’elemento dell’acqua, simbolo dell’inconscio, gioca un ruolo fondamentale. Il regista danese riprende una sceneggiatura nientemeno che di Carl Theodor Dreyer, in un trattamento in cui il rispetto per l’originale si unisce a un’interpretazione tutta personale del grande maestro. Infatti, ad esempio, Dreyer intendeva ambientare il film in Grecia, mentre von Trier sceglie, come già accennato, un nord nebbioso e dominato dall’acqua, in linea con una consolidata poetica autoriale già espressa nelle immagini di un’Europa allagata in L’elemento del crimine (1984), che deve molto anche alla lezione di un altro maestro dichiarato del regista danese, Andrej Tarkovskij. Se la Medea di Pasolini si poteva definire come una ‘signora del Sole’ (una maga figlia del Sole, messa sovente in relazione con esso tramite il montaggio alternato), quella di von Trier si presenta come una ‘signora dell’acqua’. Nelle immagini iniziali vediamo infatti la protagonista – ripresa da inquadrature aeree e fluttuanti in un vertiginoso vortice – sdraiata su una spiaggia e sormontata dalle onde del mare mentre, in preda a palpiti d’angoscia, stringe la sabbia con le mani (immagine che forse cela un gusto iconografico per l’Ofelia annegata, che tornerà comunque in un’inquadratura di Nicole Kidman in Dogville, 2004). Successivamente la macchina ‘si tuffa’ nel mare freddo e grigio per inquadrare da lontano la nave del re Egeo che sta sopraggiungendo. Subito dopo, quasi trascinata da una forza onirica e perturbante, ‘annega’ risucchiata letteralmente dall’acqua e vediamo apparire il titolo del film col nome del regista, in una cupa stilizzazione che rappresenta i figli di Medea impiccati a un albero. Infatti, se Pasolini, in linea col teatro tragico greco, non mostrava in scena l’uccisione dei figli facendo semplicemente vedere agli spettatori la lama del coltello (che rappresentava metaforicamente l’assassinio), von Trier calca invece le sequenze dell’impiccagione dei bambini con crudezza estrema. La scena dell’impiccagione è giocata in contrasto con le inquadrature di Giasone che sta cavalcando attraverso spazi aperti per raggiungere Medea: da una parte, perciò, le immagini claustrofobiche e ravvicinate dell’uccisione, in cui l’orrore è accentuato dalla consapevolezza del figlio più grande, che addirittura aiuta la madre a uccidere il fratello e se stesso mettendosi da solo la corda intorno al collo; dall’altra, invece, spazi aperti, praterie, immagini che comunque sono ben lungi dall’essere catartiche e liberatorie. La cavalcata di Giasone terminerà infatti nella macabra scoperta del cadavere dei figli e in un suicidio: una volta uccisosi con la propria spada, il personaggio disteso sull’erba, verrà presentato, tramite una sovrapposizione di immagini, sommerso dalle onde del mare, le stesse che all’inizio avvolgevano Medea. L’ottica dell’eroina tragica rappresentata da von Trier non proviene più perciò dal sud dei diseredati, dei sottoproletari, e non possiede nemmeno più un filtro politico. Semmai, si può parlare di una vera e propria ottica tragica, dettata dall’oscurità e dall’angoscia, in linea con la poetica del regista (in questo senso Medea diviene un’eroina tragica alla von Trier, una donna votata al sacrificio e all’espiazione come la Bess di Le onde del destino o la Selma di Dancer in the dark, 2000). Infine, il regista messicano Arturo Ripstein, già aiutante alla regia di Luis Buñuel, in Asì es la vida ‘riambienta’ la Medea di Seneca (non più quella di Euripide) in un quartiere popolare di Città del Messico. Una trasposizione ‘anticanonica’ quindi, ben più marcata di quella di Pasolini. Medea è allora Julia, una ragazza in odore di magia che pratica l’aborto clandestino, giunta nella metropoli al seguito del ‘casanova’ senza scrupoli Nicolas, da lui poi abbandonata per la figlia del “Marrana”, boss del quartiere, corrispondenti, rispettivamente, a Giasone, Glauce e Creonte. Interessante appare anche la rilettura del coro tragico attuata da Ripstein: si trasforma infatti in uno scalcinato e allegro gruppo musicale che improvvisa sulla chitarra storie messe in musica e appare sullo schermo ogni volta che Julia o l’anziana padrona di casa (corrispondente alla nutrice di Medea) accende la televisione. Viene inoltre messo in scena un curioso gioco metacinematografico secondo il quale il regista e la sua troupe entrano dentro il meccanismo della finzione: infatti, spesso lunghe carrellate all’interno degli appartamenti popolari terminano con i personaggi che cacciano gli ‘intrusi’ (la macchina, il regista e la troupe) fuori di casa. Un gioco che culminerà in un’immagine alla Velazquez dove, in una camera, vediamo riflessi in uno specchio il regista, i suoi collaboratori e la macchina da presa. In linea con la tragedia di Seneca che, a differenza di quella di Euripide mostra sulla scena le uccisioni e i fatti di sangue, Ripstein rappresenta molto crudamente l’assassinio dei figli di Julia e Nicolas da parte della madre. Viene mostrato il coltello, come in Pasolini, ma anche l’atto dell’omicidio, e i cadaveri ancora sanguinanti dei bambini vengono esposti di fronte a un agghiacciato Nicolas appena rientrato a casa. Ancora un odio estremo, quello di Medea, che non risparmia neppure ciò che ha di più caro. Non più, però, l’odio di una ‘diseredata’ nei confronti dei ricchi e dei colonialisti del neocapitalismo, come in Pasolini. Non più perché, in Asì es la vida, sono un po’ tutti dei diseredati, da Nicolas al “Marrana”, dalla vecchia ‘nutrice’ alle ragazze che si affidano a Julia per abortire clandestinamente. Il film mette in scena un mondo duro, fatto di piccole gioie e piccoli dolori, una lotta fra poveri in cui il più forte ha sempre la meglio sul più debole. Un richiamo all’antico per mostrare agli spettatori una società contemporanea nascosta, lontana dai nostri sguardi abituali, una realtà sottoproletaria metropolitana, quella di Città del Messico e di mille altre città. Una società in cui protagonista non è più Medea, ma la clandestina Julia che, una volta ripudiata e allontanata con la violenza, esprime a sua volta la sua violenza e il suo odio nei confronti di altri diseredati come lei, prima di partire per sempre verso nuovi sud del mondo a bordo di un taxi giallo.
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